Il 23 maggio 2024 è stato pubblicato il secondo Netflix Engagement Report che – con i dati sulle visualizzazioni collezionate da più di 18.000 titoli tra stagioni e film – offre una panoramica sui titoli maggiormente apprezzati dal pubblico della piattaforma on-demand. È la seconda volta che Netflix rilascia un documento di questo genere e, per quanto si tratti di dati di prima parte – non confrontabili, quindi, con quelli Auditel o di altri JIC – è curioso notare le collocazioni dei vari contenuti e le metriche utilizzate per misurarne l’interesse.
Molti articoli si sono cimentati nell’interpretazione delle classifiche, alla ricerca soprattutto dei posizionamenti delle serie e dei film italiani, originali o su licenza. Pochi, però, si sono soffermati sui documentari, un genere che per Netflix Italia rappresenta una parte sempre più rilevante e innovativa dell’offerta originale. Il loro ruolo merita di essere esplorato, in particolare a seguito di alcune critiche rivolte a Unica, il docu sulla fine della relazione tra Ilary Blasi e Francesco Totti, uscito a fine novembre 2023 e costato più di due milioni di euro: cifra da alcuni ritenuta eccessiva, anche a fronte di una presunta richiesta di contributi pubblici (comunque mai erogati). A partire dagli ultimi numeri comunicati della piattaforma, proviamo quindi a ipotizzare quali sono le specificità del documentario Netflix e perché un “costoso” lungometraggio sulla fine di una love story, non solo funziona, ma conviene.
Piattaforma globale, radicamento nazionale: le caratteristiche del docu Netflix
Si dipana in cinque episodi – curati da Gianluca Neri insieme a Carlo Gabardini, Paolo Bernardelli e Cosima Spender – la ricostruzione storica che segna l’esordio, per Netflix Italia, della programmazione originale di non-fiction. Il 30 dicembre 2020 viene infatti caricato SanPA: immagini e video provenienti da 51 differenti archivi e 180 ore di interviste illustrano, per una durata di circa 5 ore, luci e tenebre della comunità di recupero di San Patrignano. Al centro la vita – dalla nascita alla caduta, passando per la crescita, la fama e il declino – del suo controverso fondatore, Vincenzo Muccioli, in un racconto a più voci che restituisce in modo vivido una tragedia insieme personale e collettiva.
Nello stesso periodo, forte probabilmente del successo di critica ottenuto dall’opera, premiata anche con un Nastro d’argento, la sezione italiana del colosso dello streaming definisce una sua “linea docu”. Tre sono i principali progetti che vengono sviluppati e rilasciati negli anni successivi: Wanna, Il caso Alex Schwazer e Il Principe. L’obiettivo diventa realizzare «storie specifiche e riconoscibili a livello locale». «Dovevano avere un elemento di esclusività, con materiali inediti», ricordava lo scorso giugno a The Hollywood Reporter il manager a capo dell’area documentari e unscripted di Netflix Italia, Giovanni Bossetti, «e trattare anche dei temi più ampi, con cui raggiungere un pubblico più orizzontale».
Pur essendo partiti con storie mystery e true crime (SanPa e Vendetta, guerra all’antimafia, anche se Bossetti ha specificato che «non abbiamo mai lavorato a un crime puro»), gli approfondimenti e le inchieste targate Netflix hanno finito nel tempo per abbracciare un più ampio ventaglio di generi, tanto in termini di tagli di racconto – come il “docu-show” con protagonista Cattelan, lo speciale sul film di Sorrentino È stata la mano di Dio e il documental su Ilary Blasi – quanto di argomenti trattati. Nel 2022 in un’intervista a ilPost, Bossetti esprimeva il desiderio di «procedere su un doppio binario»: da una parte la «volontà di cercare idee originali che si muovano nell’alveo di generi conosciuti e che il pubblico ha già dimostrato di apprezzare» e dall’altra la voglia di «capire se ci possano essere interpretazioni italiane» di cose che avevano funzionato all’estero.
Da circa due anni a questa parte, con Wanna e poi con Il giovane Berlusconi, Vasco Rossi – Il Supervissuto e Unica, si è consolidato nello specifico un filone che si muove verso un racconto molto pop e colorato, in una dinamica che da un lato riverbera le logiche delle reti generaliste (con i retroscena a tinte rosa di Unica) e dall’altro si propone di raccontarne parte della storia, come nel caso de Il giovane Berlusconi.
Tra i formati, a prevalere è la docuserie, per la quale Netflix può rivendicare un ruolo pionieristico nel contesto italiano, almeno in termini di episodi con una forte continuità narrativa. A essere selezionate sono invece per la maggior parte storie limited, con una conclusione definita o una limitazione temporale riconoscibile. Nel caso del documentario questo si traduce in racconti circoscritti nello spazio e nel tempo, tendenzialmente lontani dall’attualità o comunque con una ricostruzione dei fatti in grado di restituire un preciso orizzonte di senso, sulla scia di quanto si fa per la serialità con sceneggiatura. Bossetti ha parlato, a questo riguardo, della necessità di «porsi questioni di linguaggio», per esempio lavorando sulla struttura del racconto con una «attenzione a come scandire le puntate, a qual è il punto di tensione di ogni episodio» e applicando «strumenti di lavoro del mondo scripted ai racconti del reale, che non devono dimenticare mai che c’è un abbonato che va agganciato e fatto appassionare». I documentari su Vasco Rossi e Ilary Blasi confermano però l’intenzione di Netflix di occuparsi anche di «storie più recenti e non per forza legate al passato», probabilmente alla ricerca di un pubblico più ampio.
Ad ogni modo, differentemente da quanto fatto per altri generi (come il reality, il dating o anche la stessa serialità), con il documentario si punta in modo esclusivo su volti e tratti identitari. Il docu italiano diventa quindi un prodotto peculiare per un gruppo solitamente orientato verso il glocal commissioning.
«Non credo molto a questa cosa della “storia che viaggia”. Per me è importante parlare agli abbonati italiani. Le serie sono disponibili ovunque, e vengono viste all’estero. Questo è chiaro. Però il nostro primo obiettivo restano gli spettatori italiani.» (Giovanni Bossetti, The Hollywood Reporter Roma, 2023)
Una visione che è trasversale alle categorie dell’offerta – sono di qualche giorno fa le parole rivolte dal co-ceo di Netflix Ted Sarandos agli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia: «non scendete a compromessi e raccontateci le vostre storie, storie che siano autenticamente italiane e in italiano» – ma che per il documentario sembra oltremodo valida.
I dati di prima parte confermano infatti questo “radicamento nazionale”. Nell’ultimo report semestrale – che prende in considerazione le visualizzazioni globali avvenute tra luglio e dicembre 2023 – su 6.599 contenuti seriali, il primo docu italiano per numero di views (Il Principe con 2.500.000) si colloca solo al numero 939 del ranking (la serie originale italiana più vista, la stagione 1 di Odio il Natale è invece nella posizione 305, con 5.900.000 views). Tra i film, spicca il documentario su Ilary Blasi (Unica, 5.900.000 views) collocato però anch’esso piuttosto in basso in classifica (552 su 9.396), mentre il lungometraggio italiano originale più visto nel 2023 è Il mio nome è vendetta, alla posizione 193, con 18.700.000 visualizzazioni.
I numeri non devono però trarre in inganno: il documentario è un genere che, in rapporto ai costi sostenuti (molto più bassi di quelli richiesti per lo scripted), tende ad avere un ottimo ritorno in termini di spettatori. Questo è uno dei motivi per cui Netflix, a livello internazionale, ha incrementato a partire dal 2018 il commissioning di docu e reality, in una svolta che secondo molti ha avvicinato il gruppo alle linee editoriali della televisione in chiaro. A differenza della serialità, l’unscripted non serve tanto da leva attrattiva per nuovi abbonati, quanto più per ridurre il tasso di abbandono di quelli esistenti, incrementando il loro tempo di visione complessivo. In questo senso, essendo il costo dei contenuti non-fiction relativamente ridotto, risulta piuttosto conveniente puntare su questi generi per arricchire il catalogo. Il ruolo del documentario diventa quindi quello di fidelizzare il pubblico locale, non di massimizzare gli investimenti per attrarre audience globali.
In virtù di questo ragionamento, appare pretestuosa la polemica che ha coinvolto Unica. Sebbene il suo costo sia più alto della media dei titoli di questo genere, il documentario su Ilary Blasi è stato bersaglio di critiche che trovano poco riscontro nei dati comunicati dalla piattaforma (e che andrebbero, se mai, rivolte a titoli molto meno “profittevoli”). Nel prossimo articolo proveremo a fare chiarezza sul ruolo produttivo di Netflix nel panorama italiano del documentario, per poi passare al caso in questione.
(Nicola Crippa)